mercoledì 18 luglio 2012

18/07/2012 - Vent’anni fa moriva chi ostacolò la trattativa Stato-mafia : il Giudice Paolo Borsellino



Sono passati vent’anni da quel 19 luglio 1992 in cui persero la vita Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta:  Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina, Claudio Traina. Erano le ore 16.52 quando la fiat 126 imbottita di tritolo che si trovava in via D’Amelio fu fatta esplodere causando la strage. 

Di quel tragico pomeriggio, complice la giovane età, conservo pochi flash ma indelebili. Come molti mi trovavo ad osservare sgomento i filmati delle edizioni speciali dei tg nazionali, scoprendo pochi istanti dopo che nell’esplosione era rimasto ucciso il Giudice Borsellino. A distanza di vent’anni quei video, visti e rivisti grazie agli approfondimenti realizzati, sembrano appartenere ad un incubo. “Palermo sembrava Beirut” è la frase che ritorna in auge quando si ricordano quei momenti. 

Si scoprì col tempo che dietro quella terribile mattanza si celava una trattativa demandata a componenti delle Istituzioni nelle persone dell’allora colonnello del Ros Mario Mori e del capitano De Donno che scelsero l’ex Sindaco di Palermo Don Vito Ciancimino come tramite per arrivare alla “cupola”.  

Con il suddetto comportamento era chiaro che lo Stato voleva chiudere questa stagione senza combattere, arrendendosi, cedendo al ricatto di sangue messo in atto da Cosa Nostra, evitando in tal modo altre stragi. La morte di Giovanni Falcone accelerò le cose; Paolo Borsellino capì quanto stava succedendo intorno a lui e ne rimase sconvolto: potevano le Istituzioni di uno Stato democratico trattare con chi aveva sterminato da ultimo un suo fedele servitore, l’amico Giovanni Falcone ? Si sarebbe dovuto trovare un accordo con chi chiedeva la revisione del maxi-processo e altri benefici ? 

Impossibile per Borsellino pensare minimamente ad una simile eventualità; il Giudice tirò dritto, consapevole di essere ormai abbandonato al suo destino nonché ostacolo alla trattativa. Terminata questa terribile stagione nacque la Seconda Repubblica che affonda i suoi pilastri nel sangue delle stragi. 

Da allora sono stati  fatti passi in avanti ma permangono troppi silenzi e reticenze dei protagonisti dell’epoca. Uno di questi è Nicola Mancino, Ministro dell’Interno nel 1992 ed indagato per falsa testimonianza nell’inchiesto sulla trattativa Stato-mafia, balzato agli onori delle cronache perché in alcune intercettazioni telefoniche chiese al Consigliere del Presidente della Repubblica Loris D’Ambrosio un intervento sulle procure. Mancino ne parlò pure con Napolitano, il quale ha sollevato un conflitto d’attribuzione sui questi suoi colloqui ponendo di fatto in stato d’accusa la Procura di Palermo. 

Così, mentre servirebbe uno sforzo supplementare delle Istituzioni tutte per illuminare  gli angoli bui del passato, assistiamo a comportamenti che mirano a far dimenticare questa storia, a cancellarla per sempre. 

Pur rispettando la decisione del Presidente risulta difficile condividerla nel merito. Sarei stato più contento di sapere che il Capo dello Stato  avesse ammonito Mancino per essersi permesso di fare tali richieste, prendendone conseguentemente le distanze. Ed invece sulla vicenda si vuole far calare il silenzio, non si ha la volontà di trasmettere all’opinione pubblica cosa sta succedendo. 

“Io credo che i cittadini debbano impegnarsi ciascuno per la sua parte, ciascuno nel suo ruolo, ciascuno nel ruolo che svolge nella società per dare il proprio contributo per conquistare insieme la verità, pretendendo ed esigendola, da cittadini, perché la verità è difficile, imbarazzante, può essere solo frutto di una conquista collettiva, di uno sforzo collettivo”. Sono parole di Antonio Ingoia, procuratore aggiunto della procura distrettuale antimafia di Palermo, da anni impegnato in prima linea per far luce sulla trattativa. Frasi da cui dobbiamo ripartire con la necessità di pretendere chiarezza sulla vicenda senza mai perdere la speranza. Quella speranza che Paolo Borsellino riponeva idealmente nei giovani affinché il suo lavoro non andasse perduto bensì da loro tramandato. 

Andrea Fossati

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