martedì 2 novembre 2021

19/07/2021 - Ricordo del Giudice Borsellino a 29 anni dalla strage di Via D'Amelio

 Sono passati ventinove anni da quel 19 luglio 1992 in cui persero la vita il Giudice Paolo

Borsellino e gli uomini della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li

Muli, Walter Cosina, Claudio Traina. L’unico superstite fu Antonino Vullo che quel

pomeriggio si trovava in testa al corteo della auto. Erano le ore 16.52 quando la fiat 126

imbottita di tritolo che si trovava in via D’Amelio fu fatta esplodere causando la strage.

Si scoprì successivamente che dietro quella terribile mattanza si celava una trattativa

demandata a componenti delle Istituzioni nelle persone dell’allora colonnello del Ros

Mario Mori e del capitano De Donno che scelsero l’ex Sindaco di Palermo Don Vito

Ciancimino come tramite per arrivare alla “cupola”.

Lo Stato, sotto ricatto, voleva mettersi al tavolo con Cosa Nostra per fermare le stragi; in

altre parole arrivare ad una resa. Ma questo Paolo Borsellino, che aveva appena visto

morire il collega e amico Giovanni Falcone, non lo poteva permettere. Non si sarebbe mai

dovuto trovare un accordo con chi chiedeva la revisione del maxi-processo e altri benefici

per i mafiosi. E così il Giudice divenne un ostacolo alla trattativa e fu abbandonato al suo

destino.

Lo stesso pomeriggio della strage di Via D’Amelio un uomo dello Stato, nel perimetro

recintato del cratere della bomba, si introduce nell’auto carbonizzata, prende una delle due

borse appartenenti a Borsellino e da lì estrae l’agenda rossa che non fu mai più trovata.

Quella stessa agenda che conteneva nomi e fatti che il Giudice aveva scoperto. E per non

far capire chi era stato ad organizzare quelle stragi, e cioè i fratelli Graviano – boss di

Brancaccio, legati ad uomini dello Stato e della politica anche futuri, venne organizzato da

Arnaldo La Barbera, funzionario di polizia che coordinò le indagini sull’attentato, il più

classico dei depistaggi (La sentenza della Corte d'Assise di Caltanissetta lo definisce «uno

dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana»), “confezionando” ad hoc un falso

pentito, tal Vincenzo Scarantino, che rese dichiarazioni false e preconfezionate.

Dal passato emergono frammenti di verità con molta fatica, inchiesta dopo inchiesta,

processo dopo processo. Proprio per questo servirebbe uno sforzo supplementare delle

Istituzioni tutte per illuminare gli angoli bui del passato e non a comportamenti che mirano

a far dimenticare questa storia, a cancellarla per sempre.

Andrea Fossati